lunedì 17 ottobre 2011

L’indicibile tristezza del catalogo IKEA® - uno




Primo passo

Il suo silenzio non ti parla?


Agosto 2011


Pochi giorni fa, durante l’ultima seduta di terapia, ho coniato un’espressione che ha fatto sorridere la mia analista. S’è da poco trasferita in un casa nuova – e quindi in uno nuovo studio, che poi al paziente deve giusto importare lo spazio in cui si svolgono quei 50 minuti settimanali di blablabla; in realtà a me piacerebbe carpire un pochetto di più della persona che mi sta davanti e che a volte fa le migliori battute acide mai sentite in vita mia (roba che se non volesse più continuare ad esercitare come psicoterapeuta le consiglierei di iniziare ad annotarle – un esempio: “mhhhhh, più che presunzione, io direi onnipotenza.” Pausa. Risatina di due secondi –  e di proporle a Woody Allen, non si sa mai che un giorno la sua verve giudaica possa essere in secca). Sì, cerco d’immaginarmi la sua vita al di là delle due poltroncine rosse e del quadretto della colomba magrittiana appeso alla parete, oltre la lampada dal design asettico e minimale. Ora che non sta più nello studio in affitto di una collega, potrò finalmente cogliere dettagli, starò attenta a ogni possibile rumore: una lavatrice che centrifuga mi farà pensare che anche lei è umana, anche lei lava i maglioni di lana col detersivo per i delicati; magari, visto che il mio orario fisso è subito dopo pranzo, sentirò il rimasuglio dell’aroma dei cannelloni con la besciamella che s’è sparata a pranzo.

Come dev’essere dura non far trapelare nulla, tenere chiuso ogni spiraglio che possa suggerire qualcosa di personale ed intimo, trincerarsi dietro un “non c’è male”, ascoltare i fattacci, i segreti, le vite degli altri. Essere neutri, posati, accomodanti anche quando magari si vorrebbe dire alla persona che si ha davanti che è una snob del cazzo. Essere degli schermi e riflettere l’altra persona come in uno specchio, mostrarle chi è, o almeno provarci. Chissà come ci si sente a fine giornata. Bisogna avere una fermezza colossale per fermarsi al punto giusto, per dosare le domande, per non buttarsi troppo nell’altro. E’ proprio il lavoro che non farei mai: come dice Joni Mitchell in A Case of You, “parte della persona amata deborda e irradia i versi delle sue canzoni”, parte di me uscirebbe fuori dal contenitore (un gran piccolo contenitore, tra l’altro; ho la rara capacità di pisciare fuori dal vaso con una frequenza imbarazzante e di non riuscire mai – MAI – a rientrare nei bordi, nei canoni, nelle regole) e strariperebbe nell’altra persona; al contrario la mia analista è a tenuta stagna, doppio strato di silicone lungo i bordi per evitare le infiltrazioni e le fuoriuscite, due passate di smalto antimuffa, comportamento acciaio inox: lei “generalmente non saluta; se il paziente la incontra per strada, ricambia”.

Non parla molto, mi lascia sproloquiare. Ogni tanto, quando si mangia le unghie, mi chiedo se mi sta ascoltando – un po’ come Antonius Block che durante la confessione chiede al suo interlocutore mi ascolti? e non sa che dall’altra parte c’è la Morte che, nonostante lo incalzi nel suo sconforto, non si sbilancia quasi mai: asciutta, fredda, un’incredibile maschera umana.

- fine prima parte -

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