Primo passo
Il suo silenzio non ti parla?
Agosto 2011
Pochi giorni fa, durante l’ultima seduta di
terapia, ho coniato un’espressione che ha fatto sorridere la mia analista. S’è
da poco trasferita in un casa nuova – e quindi in uno nuovo studio, che poi al
paziente deve giusto importare lo spazio in cui si svolgono quei 50 minuti
settimanali di blablabla; in realtà a me piacerebbe carpire un pochetto di più
della persona che mi sta davanti e che a volte fa le migliori battute acide mai
sentite in vita mia (roba che se non volesse più continuare ad esercitare come psicoterapeuta
le consiglierei di iniziare ad annotarle – un
esempio: “mhhhhh, più che presunzione, io direi onnipotenza.” Pausa. Risatina
di due secondi – e di proporle a Woody
Allen, non si sa mai che un giorno la sua verve giudaica possa essere in secca).
Sì, cerco d’immaginarmi la sua vita al di là delle due poltroncine rosse e del
quadretto della colomba magrittiana appeso alla parete, oltre la lampada dal
design asettico e minimale. Ora che non sta più nello studio in affitto di una
collega, potrò finalmente cogliere dettagli, starò attenta a ogni possibile
rumore: una lavatrice che centrifuga mi farà pensare che anche lei è umana,
anche lei lava i maglioni di lana col detersivo per i delicati; magari, visto
che il mio orario fisso è subito dopo pranzo, sentirò il rimasuglio dell’aroma
dei cannelloni con la besciamella che s’è sparata a pranzo.
Come dev’essere dura non far trapelare nulla,
tenere chiuso ogni spiraglio che possa suggerire qualcosa di personale ed
intimo, trincerarsi dietro un “non c’è male”, ascoltare i fattacci, i segreti,
le vite degli altri. Essere neutri, posati, accomodanti anche quando magari si
vorrebbe dire alla persona che si ha davanti che è una snob del cazzo. Essere
degli schermi e riflettere l’altra persona come in uno specchio, mostrarle chi
è, o almeno provarci. Chissà come ci si sente a fine giornata. Bisogna avere
una fermezza colossale per fermarsi al punto giusto, per dosare le domande, per
non buttarsi troppo nell’altro. E’ proprio il lavoro che non farei mai: come
dice Joni Mitchell in A Case of You, “parte
della persona amata deborda e irradia i versi delle sue canzoni”, parte di me
uscirebbe fuori dal contenitore (un gran piccolo contenitore, tra l’altro; ho
la rara capacità di pisciare fuori dal vaso con una frequenza imbarazzante e di
non riuscire mai – MAI – a rientrare nei bordi, nei canoni, nelle regole) e strariperebbe
nell’altra persona; al contrario la mia analista è a tenuta stagna, doppio
strato di silicone lungo i bordi per evitare le infiltrazioni e le fuoriuscite,
due passate di smalto antimuffa, comportamento acciaio inox: lei “generalmente
non saluta; se il paziente la incontra per strada, ricambia”.
Non parla molto, mi lascia sproloquiare. Ogni
tanto, quando si mangia le unghie, mi chiedo se mi sta ascoltando – un po’ come
Antonius Block che durante la confessione chiede al suo interlocutore mi ascolti? e non sa che dall’altra
parte c’è la Morte che, nonostante lo incalzi nel suo sconforto, non si
sbilancia quasi mai: asciutta, fredda, un’incredibile maschera umana.
- fine prima parte -
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