martedì 23 febbraio 2010

Q: Are we gay? A: We are straight!

(grazie Giu)

Povia ha dichiarato, dopo il polverone sollevato dal brano di Sanremo dell'anno scorso, di essere stato gay per 6 mesi e quaranta ore. Simili record vengono eguagliati e talvolta superati da una bizzara nondimeno diffusa specie di lesbica: quella transitoria.
Le lesbiche transitorie sono fenomeni momentanei come i fuochi fatui, le aurore boreali e le eclissi lunari - durano infatti l'espace d'un matin.
Appartenenti alla categoria delle "giovani promesse (non mantenute)", presentano una scorza dura di velleità ribelli ed intellettualoidi sapientemente miscelata ad una sottile patina di intransigenza simil sig.na Rottermeier che nasconde un morbido cuore borghese. Visivamente questo scontro psichico tra feroce severità e desiderio anarchico si traduce in un paradossale stile finto-sfattone/educanda svizzera che ben suggerisce numerose letture à la Simone de Beauvoir e frequentazione di circoli politico-culturali che strizzano l'occhio alle varie e vaghe sfaccettature della sinistra italiana: dall'ormai defunta DC catecumenale passando per i vini rossi dell'ARCI fino a spingersi ai ben più riottosi centri sociali ove provare il brivido della prima canna.
Perché, dovete ben capire, la lesbica transitoria non ha mai vissuto il conflitto adolescenziale coi genitori - nella maggior parte dei casi una deliziosa ed ineccepibile famiglia moderatamente comunista sulla quale lei scatarra senza un ben precisato motivo, se non per mutuare l'atteggiamento da pecora nera dalle sfumature morbidamente dannate. L'adolescenza torbida e problematica viene emulata attraverso la voglia e la pazzia di diventare lesbiche, cioé provare a fare qualcosa che la sua etica borghese sicuramente non tollererebbe, solo per vedere l'effetto che fa.
Da qui, perciò, l'affezione per la ragazza più diversa della classe o della compagnia, che si sa essere in odore di lesbismo. L'intima amicizia si articola in più fasi.

1. sfoggio (da parte della l. transitoria) della sua personale controcultura e atteggiamento sfacciatamente gaio, spavaldo e loquace. L'intesa si salda dopo varie sbornie memorabili e sms affettuosi prima di andare a dormire.

2. primi timidi contatti fisici che si limitano a grattini, carezzini, occhi dolci, bacini stampi (che fanno arrossire terribilmente l'amica), prime promesse folli. L'amica, nel frattempo evolutasi come un Pokemon, ha naturalmente raggiunto lo stadio di lesbica veravera, mentre la giovane promessa, come 'n'ape, salta de fiore in fiore - sempre per vedere l'effetto che fa - per poi tornare puntualmente all'alveare amicale. L'amica ha preso 'na scuffia mondiale invaghendosi come un procione al calduccio nel tronco cavo ormai divenuto casa (cit.), ma tace.

3. la pernacchia finale: lei era gay ma adesso sta con Lui. Lui è il classico ragazzo zenzibbbilo, buono come er pane, eco- ed equosolidale, tendente al tamarro, che ha uscite come "questo cielo è gregoriano" e legge Coelho. L'amica si strugge come un procione che picchia la testa contro il tronco cavo. Si sputtana e le confessa che sì, l'ama, l'ama perdutamente e Lui è un ermafrodito, un assessuato che non sa manco toccarla e che non la invita mai a casa sua quando ce l'ha libera.
Lei fa la gnorri, ripetendo che l'altra ha travisato tutto equivocando il significato di una bella amicizia femminile, che non vuole che finisca il loro rapporto; poi, non pensando minimamente alle tonnellate di sofferenza che seguiranno a quel gesto improvviso, la giovane promessa bacia con passione l'amica.
I motivi restano tuttora ignoti.

...e vedere di nascosto l'effetto che fa.

mercoledì 17 febbraio 2010

Nel millenovecentonovanta avevo cinque anni

Io sono figlia della tv privata.
Dei cartoni animati di Bim Bum Bam. Dei Giochi Preziosi e del Crystal Ball. Delle salopettes di jeans e delle prime tute in acetato con colori imbarazzanti che vedevo - ed invidiavo - ai miei compagni di classe e che mamma tanto odiava. Dei gelati Eldorado e di quegli album da colorare con un pennarello che cambiava colore magicamente. Della pubblicità Egoiste che mi faceva paura, tutte quelle donne isteriche e un uomo che combatteva contro la propria ombra, ma anche di quelle più rassicuranti della Barilla (alzi la mano chi non ha dovuto imparare la musica al flauto!).
Il primo ricordo che ho è una puntata di Fantastico '87 con le pause di Adriano Celentano. A dir la verità parte della mia infanzia ruota attorno a lui. I miei mi hanno raccontato che, senza manco aver visto Bingo Bongo, durante la visita allo zoo indicai con una certa agitazione l'Orango Tango dicendo: "Tano, Tano".
Qualche anno dopo cambiai gusti e miei nuovi idoli televisivi diventarono Cristina D'Avena e Lorella Cuccarini.
La prima, mito di tutti noi bambini, imperversava dall'86 con Love me Licia su Canale 5 e fece da subito breccia nel mio cuore di bimba di 3 anni. Cristina non solo cantava la sigla (la sigla più venduta del 1986, recita Wikipedia), ma aveva il ruolo della tenera dolce piccola incantevole Licia insidiata da quel bulletto di Mirko. Il candore virginale della D'Avena, che nel 1988 aveva solo 24 anni ma ne dimostrava 18, m'imbarazzava a tal punto da farmi diventare rosse le guance: già a 4 anni ero mossa da ardori protolesbici concentrati perfettamente in una mia frase pronunciata in pubblico, frase che Freud potrebbe addurre a causa di tutti gli scompensi conseguentemente verificatisi:

"da grande voglio sposare Cristina D'Avena e Lorella Cuccarini"

La seconda, invece, la Cucca nazionale, passata a Mediaset allora Fininvest nel 1987 e figura di punta della stagione 1988-89 con Odiens, aveva alle spalle il successo di Fantastico 7 dell'86 condotto, tra l'altro, con uno dei miei idoli televisivi delle annate '91-'93, Alessandra Martines, cioé Fantaghirò.
Ma andiamo con ordine; la Cucca, il mio wonderwall, poteva cantare recitare ballare condurre senza avere il fiatone. Indistruttibile.
Nell'immaginario comune lei e Marco Columbro sono stati i genitori mediatici che tutti noi bimbi nati tra l''84 e il '90 abbiamo sognato di avere: lei bionda occhi azzurri e voce squillante, te la figuri subito di domenica che ti chiama con un "è prontoooooo" dal piano di sotto mentre sforna la lasagna col guantone da cucina e il grembiule a fiorellini (modello donna americana perfetta massaia anni '50) e lui, il babbo, occhiali da vista che legge il giornale e accessoriamente fuma la pipa/accarezza il cane/guarda la Tv.

Qualche anno più tardi - neanche troppo tempo dopo in realtà, perché ero in prima elementare, quindi avevo 6 anni - la mia velata passione femminile si concretizzò, mi si perdoni la rima imbarazzante, con Fantaghirò.
Fantaghirò era il non plus ultra per la lesbica latente in me: una donna che fa finta di essere un uomo e che si taglia i capelli da uomo e che combatte come un uomo e che quasi seduce le pulzelle. Lamberto Bava non aveva fatto altro che rielaborare Lady Oscar e collocarla in un universo pseudomedievale e pseudofantasy, il tutto condito dalle indimenticabili musiche di Amedeo Minghi; ma la cosa più allucinante era che Bava era riuscito a far recitare un sasso - e no, non mi riferisco alla Martines, attrice nata col dono della monoespressione.
Fantaghirò mi segnò così tanto che all'età di 9 anni - durante quel periodo di pieno fermento lesbico riassumibile in: karate, Power Rangers e tatuaggi lavabili con l'acqua - le dedicai il mio Carnevale e tagliai i capelli come lei. Ancora adesso la mia parrucchiera mi saluta raccontando a tutte le sue avventrici che nel '94 andai da lei con una foto della Martines.

Nulla di cui stupirsi, quindi.
Sia la D'Avena che la Cuccarini che Fantaghirò sarebbero diventate in seguito immortali icone gay.

martedì 16 febbraio 2010

Racconto 1/zerodieci

per scaricarlo in pdf, clicca qui


(grazie Fra)


Voglio perderti e mai più ritrovarti,
ricordarti come ti ho lasciato
quando per sbaglio t’ho detto ti amo
proprio come ci si chiede scusa urtandosi.



LE NOSTRE VITE COME UN FILM


Di mattina è notoriamente una seccatura vivere, ma nonostante questo contro la noia e le occhiaie mettiamo un po’ di trucco. Copriamo imperfezioni e sfoghi, diamo una botta di colore al nostro pallido incarnato e facciamo finta di essere vivi, pronti per la grande recita. Nessuna espressione del viso deve tradirci; i sentimenti reali non possono trapelare né emergere, emarginati in fondo alla nostra gola, continuamente deglutiti ma molto spesso prossimi ad essere vomitati.
Mi preparo allo scontro, inevitabile, con le persone. Ho un rapporto strano con l’alterità, sconnesso come le mattonelle sulle quali inciampo ogni volta percorrendo le vie della mia città, sebbene le conosca come le mie tasche. So benissimo con chi ho a che fare ogni volta che m’incontro con qualcuno – mi preparo studiando l’avversario, provando ad anticipare le sue mosse, rispolverando quei colpi segreti che potrebbero rendere decisivo lo scontro. Non sono mai spontanea quando parlo, agisco, nuoto nell’aria, tuttavia succede di rado che tutto mi scivoli di mano e io esca da me stessa, e tutto sia così naturale e poetico, semplice. Ma accade così poche volte – ed è amore – che non capisco mai se sia voluto o meno. Mi metto in testa di amare quella persona oppure il fascino che mi rapisce è un fluido misterioso al quale m’arrendo?

Io conosco e non conosco gli altri. Sulla carta sono esperta, informata, ho divorato manuali di psicanalisi e sociologia. Sono capace di leggere uno sconosciuto da lontano oppure il mio vicino sull’autobus osservando un piccolo tic, una microespressione, un sospiro: m’immagino le loro vite, voglio partecipare ai loro eventi, essere presente con la mente. E lo stesso accade quando devo uscire da quel piccolo mondo che mi sono costruita – pronta ad assaporare il sapore acre della società. Il mio crapino sbuca intimidito mentre faccio di tutto per mimetizzarmi tra un viso e l’altro.
Così mi preparo allo scontro – in teoria.
Nella pratica la mia vita sociale è una gimkana di eventi sconnessi e saltuari con degli sconosciuti, ogni volta con volti nuovi. Gli incontri, infatti, non si ripetono mai: dopo il primo appuntamento non ci si rivede più, ma si assaporano le prime, ultime, uniche volte che hanno il gusto e le forme delle occasioni – più facili da riordinare nello scomparto dei ricordi.
I miei incontri transitori, passeggeri e talvolta casuali mi consentono di sembrare interessante, d’inventarmi dettagli e particolari, di avere un certo fascino che inevitabilmente sfiorisce e sfocia nella noia, nella routine degli indifferenti, nel ritmo regolare del nostro vivere. Mentre il cuore, ritmo costantemente irregolare, inciampa ma sa dove cadrà, anche lui preparato all’impatto con la terra.
Colleziono una serie di incontri in cui si condivide qualcosa di effimero o tutt’al più inesistente ma che assomiglia terribilmente a un concentrato di vita: ore e ore di entusiasmo costruito ad arte, misurato, mai fuori posto. E’ un vivere “ora e qui” perché poi in futuro troppe cose mi condizionerebbero e inventerei delle scuse stupide snaturandomi; perderei quell’unicità architettonica che fa da impalcatura alla prima volta, quella in cui mi sono preparata un copione facendo finta di non averlo, in cui ho dato vita a vite nuove, ad altre me. Un film.
Non c’è ipocrisia, perché si mente sapendo di farlo, non ci si nasconde, ma si sta al gioco. Applico alla lettera gli insegnamenti di quei tomi che ho divorato, e so che non ci sarà alcun imprevisto né sorpresa, perché le reazioni umane in cui potrei imbattermi le ho già studiate, le ho già sottolineate e ho fatto un orecchio a quella pagina. Tutto al suo posto, tutto in ordine, tutto sotto controllo. Io conosco gli altri non conoscendoli affatto. Ma cos’è la vita se non un racconto consapevole di bugie? Si percepisce sotto la superficie liscia della menzogna che c’è qualcosa di ruvido, e anche tu lo sai, te lo leggo negli occhi, e quindi si tace. Non c’è espressione sul mio viso che mi tradisce. Sto bene.
E’ questa la più lucida delle bugie che vivo sempre.

Ma succede – ed è amore, o forse lucida follia? – che io e te ci rintaniamo sotto la superficie di ogni bugia che viviamo. Stiamo bene sottocoperta, e possiamo riprodurre per n volte quell’unico momento, unico evento, unica volta. Potremmo andare avanti all'infinito e poi stenderci su un tetto. Io che parlo parole e tu che tessi disegni, i fili elettrici mossi dal vento.



Ed è perfetto accomodarsi a letto
Accoccolarsi
Cercare dosi di calore
In cambio di parole
Dette solamente apposta
Ti amo, t’ho sospeso una volta su di un filo
Ma amore mio, addio
È tutto detto
Tutto fatto
Niente affatto amati.