A vederlo non gli daresti un centesimo. Con quella faccia un po' così, da biondino inglese primo della classe, probabilmente menato dai compagni più grossi durante l'intervallo, t'immagini possa solamente scrivere saggi barbosi sul Settecento.
Invece.
James Blake è la proiezione ortogonale di cosa/come suonerà Thom Yorke quando i Radiohead si saranno rotti di fare musica perché quello che avevano da dire l'avran già detto e non ci tritureranno le palle con reunion celebrative, best of, tristi ospitate televisive e album di inediti da pubblicare secondo contratto.
James Blake suona il piano, ha coverizzato Feist (Limit to your love), fa un uso spropositato di pause e di silenzi che manco Harold Pinter e mugola con una vocetta spiritata rubata ad Antony che sa tanto di negritudine. La sua musica, che verrà presto depredata dai pubblicitari (ne sono sicura), è un misto di elettronica ibrida alla Aphex Twin, collage multicolore e ritmi soffocati e in controtempo che schiacciano l'occhio a Four Tet e Flying Lotus e tanto, ma tanto dubstep coi suoi bassi killer che ti colpiscono le budella. Non solo: c'è anche una profonda intimità, un calore umano e un modo di cantare che mi ricordano Jeff Buckley.
Il punto è che a 22 anni James Blake ti butta lì come se fosse niente un pezzo come I Never Learnt to Share che mentre ascolti manco t'accorgi di quello che succede perché è davvero troppo. Quindi lo risenti e ti meravigli, non è possibile. E poi una terza volta e ti trattieni.
Cosa accade in quasi 5 minuti? Prima i Platters con l'autotune a palla, poi un inserto quasi shoegaze, poi si arriva agli esercizi di stile di Queneau, minime variazioni elettroniche, quasi jazz, sulla stessa frase con climax estatico verso i 3 minuti e annessa perdita dei sensi.
La quintessenza della mutazione genetica del dubstep ha trovato in questo brano il suo classico.
I Never Learnt to Share
L'ellepì di debutto (James Blake - s/t) uscirà tra due settimane ma già in molti blog e testate giornalistiche tira aria di hype - e le premesse che diventi uno dei dischi del 2011 ci sono tutte.
James Blake è pieno di felicissime intuizioni in bilico tra attitudine classica, soul e glitch-hop, ed è pervaso da un sentimento di desiderio, un intenso anelare a un suono distante come un miraggio, una sacra nostalgia ovattata da muri di suono ma anche da costruzioni fragili e sofferenti per solo piano e voce.
L'interessante ep Klavierwerke (pubblicato nell'autunno dello scorso anno) aveva ampiamente anticipato questo mood più tetro dimostrando un'eccellente capacità compositiva: suoni giocosi da Luna Park si incastonano con atmosfere gotiche sospese nel tempo, voci provenienti dall'oltretomba, piani trattati e inserti di puro dub.
I Only Know (What I Know Now)
Meritano un ascolto anche i brani Air&Lack Thereof(dall'ep omonimo), un perfetto esempio di elettronica funkettona da sballo, e l'ep CMYK ricco di crescendo e di aperture paurose.
Formazione classica (il ragazzo ha studiato piano e composizione in una delle più prestigiose accademie inglesi di musica), spirito dubstep, sintesi elettronica, raffinatezza pop.
Oggi è arrivata una ruspa e ha buttato giù la villetta di fronte come se fosse di cartone. Avete presente quando si stracciano le scatole d’imballaggio e il cartone rotto forma delle strane forme [simili a: faraglioni/vetta dentellata della montagna/ma anche fetta di panettone tagliata male] e s’affloscia un pochetto? I muri della villetta si sono piegati all'esterno come la buccia di una banana. Mamma ha detto “e noi che pensiamo di essere sicuri tra le quattro mura e invece basta così poco”.
Basta un niente.
E poi la figlia dei vicini di casa che mi saluta e mi dice che sono cambiata. Vorrei una faccia di scorta, un cervello di quelli buoni da pensare giusto il necessario, buoni per fare figli e poco più, poca sofferenza e molta sostanza. Quei visi da cui si capisce tutto e che non devono star lì a spiegare il perché e il percome delle cose. Appena stai vicino a facce così, che vengono giù come la villetta di cartone e sotto c’è poco niente, l’effetto è duplice, detesti loro e detesti te stessa.
E allora ho fiducia solo negli oggetti o nei momenti. Come questa notte, per esempio, alle 5, che mio nonno è venuto nella camera dove dormivano mamma ed io, con un cannocchiale in mano esclamando Eli, vieni a vedere la luna che sembravamo tutti in un film di Fellini o in quell’altro di Gondry e si acchiappava una sensazione senza chiedere nulla, perché forse vivere è anche questo, nudi momenti di incanto e sogno.
La felicità non la dipingi a tinte pastello né a pennellate uniformi. La felicità è sopravvivere, è la certezza di amare ancora, di vivere d'incidenti, scontri, lividi. Di non poter fare a meno del dolore.
Ora ho un paio di calze di lana grossa fatte a mano dalla zia novantottenne di mio nonno e sorrido, e vedo sorridere mamma, pensierosa perché cerca di ricordare qualcosa, che mette su La batteria, il contrabbasso eccetera; mi guardo i piedi, ammirando le mie nuove, comodissime peppe da uomo – smesse da mio nonno.
La felicità è anche un paio di ciabatte usate.
p.s. Annalisa Scarrone nominata sosia ufficiale di Jenny Schecter.
Un vuoto consequenziale ed ondivago mi cattura quando metto piede dalla parrucchiera.
Ieri l'altro, nonostante avessi tradito dopo 17 anni la mia acconciatrice di fiducia (la Carla) per passare alla sua discepola che da un anno s'è messa in proprio, non mi sembrava fosse cambiato molto: le avventrici erano le stesse che trovavo chez Carlà, però in una versione più imborghesita e meno "de pais" (di paese).
La camminata spavalda dell'iperpiastrata al giro di boa dei 40 mi terrorizzava. Le perle di saggezza zen della sciura de chèsa anelante una messa in piega mi paralizzavano. La sicumera ostentata dalla cinquantenne tornata da un viaggio one-day a Londra m'atterriva.
Loro la sanno lunga e la sanno più di me.
Confesso la mia ignoranza. Non so nulla delle nozze di Kate e William. Sono poco informata sui trucchi per mantenere vivo un matrimonio. Né ho lo stesso coraggio della figlia di una di quelle signore che partirà a Londra per imparare la lingua e lavorerà in un chiosco ad Hyde Park - "si fanno un sacco di soldi", ne era convinta la madre mentre lo annunciava da sotto il casco della permanente.
Sto sbagliando tutto. Questa mia laurea servirà a rinfoltire le fila di quelle disoccupate che, entrando dalla parrucchiera, verranno colte da un attacco di panico perché non hanno argomenti da condividere con le altre clienti.
Mi chiedo, pertanto: la parrucchiera è un'anticamera del debutto in società? Un banco di prova per testare le proprie capacità interrelazionali? Un microcosmo del mondo?
Se è così, rivendico a gran voce la mia non idoneità.
Una notizia che non avrei mai voluto leggere né tantomeno dare: è morta a soli 42 anni Trish Keenan, voce dei Broadcast. Li avrei visti a Maggio a Barcellona, al Primavera Sound.
Proponevano un pop raffinato, elegante, con quelle atmosfere da film di Godard&co. che tanto mi piacciono, e quel q.b. di elettronica vintage.
E' triste.
Una loro canzone era stata inserita anche nel telefilm The L Word.
Le tag di Lastfm a volte mi strappano più di un sorriso.
Per chi non sapesse di cosa sto parlando: Lastfm è un sito/social network che stila un profilo personale in base agli ascolti musicali che vengono catturati attraverso un plugin (un elemento aggiuntivo che "scrobbla", ossia scannerizza) abbinato al programma che usiamo per riprodurre musica.
Su Lastfm ci si scambia pareri e consigli, si commentano i brani, si segnalano concerti, insomma: tutto ciò che gravita intorno alla musica pare debba passà di lì. Una funzione che appare un po' defilata ma che gioca un ruolo importante sono le tag, le etichette che raggruppano varie band a seconda del genere e che aiutano l'utente a scoprire gruppi nuovi affini ai suoi gusti.
Succede ogni tanto che queste tag vengano usate un po' alla "cazzo de cane" e con un pizzico di fantasia e, più che etichettare il genere musicale, siano simili a una suggestione o a una frase che cattura uno stato emotivo suscitato da una certa musica.
I Beach House (un nome a caso), per esempio, sono stati taggati come "sigh and swoon in equal measure" (sospironi e visibilio in parti uguali): dando una sbirciata agli artisti affini di questo tag scopro che vi dimorano pure le Organ, le Electrelane, St. Vincent, Joanna Newsom, Scout Niblett e She&Him e la lista è lunghissima, issima, issima.
Posto che:
- non ho dubbi sul sesso biologico di chi ha coniato quest'espressione
- né sul suo orientamento sessuale e sul suo umore
- né tantomeno nutro dubbi sul fatto che potremo avere tante cose di cui discorrere,
invito la suddetta persona a farsi avanti e ad avanzare una proposta di fidanzamento.
Garantisco una risposta ricca di sospironi e visibilio in parti uguali.
Avete presente gli schemi enigmistici? Quegli schemi, cioé, che legano delle parole o frasi tra loro combinandole? Un esempio che tutti conoscono è l'anagramma, che mescola le lettere di una parola per formarne un'altra di senso compiuto.
A me son sempre piaciute le zeppe o aggiunte, ossia quando s'aggiungevano lettere o sillabe ad una parola e così si avevano geminazioni di varianti.
Ma ancora di più adoravo fare i cambi che prevedevano salti da una parola a un'altra modificando una lettera (consonante o vocale) passando così da un polo (o antipodo/testa) all'altro (o antipodo/coda).
Mi chiedo: se al posto di una parola ci fosse un'idea e attraverso piccole modifiche concettuali si arrivasse al polo opposto? Ecco, vorrei fare la stessa cosa con la musica, fondendo enigmistica alla famosa teoria dei sei gradi di separazione.
Ok, iniziamo.
Da "Neu!" dobbiamo arrivare a "The Horrors".
1. Neu!-->Kraftwerk.
Embé, facile facile la facciamo.
Tutto parte da qui. Siamo in Germania agli inizi degli anni '70: la culla del kraut rock.
Ebbene, kraut rock, come quasi tutte le categorie o generi musicali, è un termine ombrello. In sé, quindi, non esprime proprio nulla, piuttosto comprende un variegato sottobosco musicale accomunato dalla matrice sperimentale che mescola psichedelia, elettronica alla Stockhausen e alla Klaus Schulze, improvvisazioni free-jazz e avantgarde. All'interno un nugolo di nomi: Neu!, Faust e Can su tutti, ma anche i primi Kraftwerk, quelli di Autobahn per intenderci, un album il cui ascolto vale più di mille parole e descrizioni.
2. Kraftwerk--> Giorgio Moroder.
Proprio di Autobahn, che esce nel 1974, pare fare una scorpacciata il buon Giorgio Moroder, italianissimo di Ortisei, che, all'epoca, in Germania bazzica da qualche anno. Folgorato sulla via del synth e del vocoder, pubblica nel '75 Einzelganger, disco che sintetizza le lunghe suite cosmiche kraftwerkiane cristallizandole in una forma più pop.
Moroder in seguito avrebbe sporcato l'elettronica kraut con ritmi funk partorendo dischi come From Here to Eternity e diventando così il padrino della disco music. Il suo stile è un marchio di fabbrica, la sua influenza sterminata: Daft Punk, Air e Justice (ma anche Memory Tapes e Neon Indian) gli saranno eternamente grati.
3. Giorgio Moroder--> New Order
Il passo dai Kraftwerk ai New Order appare breve. Autobahn e Trans Europe Express hanno, nel giro di pochissimo tempo, non solo mietuto vittime illustri (il Bowie di Low, l'Eno di Another Green World), ma hanno soprattutto avuto una forte, fortissima ascendenza sul rock post '77. La rapidissima rise and fall, vertiginosa, furiosa e viscerale, del punk porta a una parcellizzazione di stili che veranno compresi sotto le etichette di new wave e di post-punk. Interpreti maggiori di quest'ondata musciale, che fonde la lezione krautrock a minimalismo elettronico fino ad arrivare alla disco music e ai ritmi funk/dub giamaicani, sono i PIL di quel pazzo di Jhonny Rotten, i Wire, i Talking Heads, i Gang of Four e ovviamente i Joy Division.
Che lo spirito tedesco aleggiasse già sui quattro di Manchester appare chiaro sin dal primo album, Disorder (1979), in cui le ritmiche quasi industrial di batteria e basso (che con le sue linee armoniche, nel post-punk, sostituirà la chitarra e diverrà strumento principe) si sposano con la voce asetticamente sofferta di Ian Curtis, producendo un effetto straniante di brechtiana memoria.
Closer, dell'anno successivo, non fa che rincarare la dose aprendosi maggiormente ai synth e alle tastiere. E poi il buio.
Un nuovo ordine appare all'orizzonte. Power, Corruption and Lies del 1983 è il manifesto di quel nuovo ordine: algida elettronica, ritmi marziali, synth che aleggiano come fantasmi e ragnatele, voci che non lasciano trapelare emozioni.
Blue Monday, perfetta fusione di rufianaggine moroderiana e di robotik dance alla Kraftwerk, dà il la definitivo aprendo la strada segnata già da Gary Numan e Soft Cell, sdoganando la dark wave e ibridandola con la disco music, dando vita al multiforme filone del synth-pop.
4. New Order--> Massive Attack
Salto temporale di 7 anni. Scenari diversissimi eppure consanguinei.
Si sta forgiando, nella zona di Bristol, un suono nuovo in controtendenza rispetto alla musica techno e alla scena Madchester più alla deriva. Un suono cupo e pieno che attinge a piene mani alle radici più dub e hip hop, ma che è in linea con l'elettronica di derivazione kraut. Un suono buio, lento e corposo che risente della lezione post-punk e che pone, ancora una volta, il basso in primo piano, un basso teso a mo' di bordone che sorregge l'intelaiatura ritmica insieme alla batteria, a volte sporcata con lo scratch.
I Massive Attack. Il trip-hop.
Poi si arriva al 1998 e con lui Mezzanine. Un album nero come la pece, claustrofobico e soffocante. Un universo sotterraneo fatto di cuniculi e di incubi allucinati. Su tutti svettano brani come Man Next Door o Angel. La dark wave è riveduta, corretta e aggiornata agli stilemi trip-hop. Il risultato è più che una rivisitazione, è quasi post-modernismo musicale.
5. Massive Attack--> Portishead
Tappa obbligata. Un passaggio quasi scontato, forse.
Il trip-hop nella sua veste più elegante e sontuosa, nonché ambigua e decadente, trova nella voce di Beth Gibbons un'interprete d'eccezione. Dolorose liturgie morriconiane, paesaggi melodici come tavolozze sbiadite, zone d'ombra, velluto blu, strade notturne, armonie slabbrate, fine fotografia in bianco e nero di film francesi degli anni '60: suggestioni, ritmi lenti, attese.
Spiriti affini gli Stereolab, metà americani metà francesi, che hanno messo a punto un perfetto ed inquietante modernariato pop, arricchito di tanto in tanto di sferzate noise e kraut.
Dal 1998 al 2008. E si approda a Third, opera terza dei Portishead.
E ancora una volta fanno capolino, sempre attuali, le sonorità kraut e kosmische, impetuose nel loro abito dark in Silence, spazzolate di spirito da chansonier, fino a spingersi all'industrial e ai ritmi ossessivi di Machine Gun ed approdare alla dolcezza camaleontica di The Rip, in cui i synth, dapprima in secondo piano, esplodono in un tripudio moroderiano da qui all'eternità.
6. Portishead--> The Horrors
Come possono in un brano convergere 40 anni di musica?