mercoledì 26 maggio 2010

Leo, è questo che siamo? - #1/07

C’E' QUESTO STANOTTE


Due distese di bianco spezzano l’oscurità,
una a terra, immobile, ricopre le forme,
l’altra in continuo movimento penetra nella notte, si ritrae.
Il gelo ha ricoperto i vasi su questo terrazzo dove non andiamo mai.
Il vento piega gli alberi e tende i fili dove nessuno stende più la biancheria.
Ho scavalcato il tuo corpo, scomposto nel sonno
e nella mia parte di letto mi sono avvolto nel tuo calore.


Alla proposta di Gerry di spararci un film di Lynch avevo riso: alle 4 di notte, senza occhiali e con accanto te Mulholland Drive mi sarebbe parso un ammasso di forme e di colori.
Facevo finta di avere sonno o forse ne avevo davvero? Avevo ancora addosso quella serata, appena finita o che probabilmente non avrebbe mai dovuto finire. Le orecchie mi fischiavano, nella mente ripassavo il nostro bacio alla fine di Dentro Sharon, mentre mi accorgevo, con ribrezzo e paura, di un livido enorme sul braccio, come un tatuaggio. Il tuo profumo era ancora più forte ora che avevi tolto il maglione.
La situazione in sé era irreale: Gerry sul divano, stravaccato e chiaramente brillo, rollava una canna (credo ci avesse impiegato una buona mezz’ora), noi, vagamente esaltate dall’atmosfera così confortevole che si era creata, cercavamo di seguire ogni minimo discorso, anche se la mente era altrove, prigioniera dei pensieri che viaggiavano, morivano sul nascere e si concludevano con un imbarazzato sorriso tra noi, tu che abbassavi lo sguardo, le guance rosse, e io, impegnata a trovare la tua mano e a piazzarla strategicamente, insieme alla mia, dietro i nostri corpi.
La tua mano nella mia. Una bolla di paradiso, una fetta di felicità pura, il nostro piccolo segreto…
Mi sentivo come se fossi stata buttata improvvisamente in quell’istante preciso, ero scollata, e anche se ero lì, perché lo percepivo dov’ero, una parte di me andava nella direzione opposta, lacerandomi, come se stessi vivendo una scena di un film che so a memoria e, nonostante ciò, mi aspettassi da un momento all’altro un cambiamento, un colpo di scena…
Il tuo corpo, steso sul materasso d’emergenza che Gerry e gli altri coinquilini adibivano a letto per gli ospiti, era calmo, placido. Per quella serata Lynch era davvero troppo. Mi sentivo girare un po’ la testa, tu avevi piazzato il tuo capo sulle mie gambe, forse anche tu sopraffatta da tutto?
Il televisore ci offriva immagini ad intermittenza, repliche di televendite, film pseudo intelletual-erotici su Raitre, video con colori così sgargianti da costringermi a chiudere gli occhi…Gerry non stava sullo stesso canale più di trenta secondi, creando un patchwork modernista e molto dada di figure urlanti, note e ritmi diversi e dissonanti, campi e controcampi, labirinti visivi dove noi, troppo stanchi per seguire una sola trasmissione, ci perdevamo, sguazzavamo, e poi ritrovavamo un senso in tutto…un senso, sì, un senso…
Mi lasciai andare sul materasso, e spensi la canna. L’effetto non tardò ad arrivare. Eri stata tu a farmi fumare, avvicinandomi la stizza alla bocca, per poi fumare tu, e poi io ancora. Gerry non era stato particolarmente generoso a lasciarci il pezzo finale, buono solo per due tiri a testa; intanto era collassato sul divano e non sembrava dare segni di volersi alzare e andare in camera. Un attimo, ci aveva annunciato, il tempo di ripigliarsi. Il tempo medio di ripiglio può essere lento, soprattutto dopo quella bottiglia di rosso che avevo portato…Io non contavo neanche più il tempo, mi sembrava di essere lì da 2 minuti come da 2 ore. Hai freddo?, ti avevo chiesto. Tu mi fissavi negli occhi, mi scrutavi, assorta, beata, nel nostro nirvana, e il sonno era lì in agguato, a ricordarci che non avremmo potuto reggere un’altra ora senza addormentarci.
Sotto le coperte, con Gerry accanto che aveva iniziato un viaggio astrale, mi sentivo una clandestina che aveva rimediato un letto di fortuna, una di quei cinesi che dormono in 15 in una stanza. Scorgevo tra le tende il buio blu, che iniziava pian piano a rischiararsi, lentamente.
E ancora quella sensazione di impotenza mi rendeva simile a una marionetta, nelle mani del caso. Quella notte era la nostra notte. Quante erano le possibilità di dormire ancora insieme dopo un concerto dei Verdena? Vivevi a 3 ore da me, ora eri qui. Eravamo una di fronte all’altra, il mio viso che tendeva verso il tuo. Mi sono avvicinata e ti ho baciato, piano, per non farci sentire, ho il brutto difetto di fare rumore quando bacio, lo so, dovevamo fare piano perché poi Gerry si poteva svegliare…
Tu eri lì, accanto a me, col mio stesso sguardo sognante e un po’ incredulo.
Gerry non si svegliava più, pareva piuttosto in coma. Mi hai sussurrato chiaramente che lui se ne doveva andare e mi hai tirato una gomitata nello sterno. Ahi, no, no, non ce la facciamo a dormire qui nello stesso materasso, Gerry, svegliati, dormo sul divano, vai in camera, ti stai addormentando qui…
Tra un borbottio e l’altro finalmente si è alzato, augurandoci una buonanotte impastata di sonno e di sbronza. Ho chiuso la porta e mi sono messa sul divano. Che fai?, mi hai chiesto. Dormo, no???!!!, risposi con un sorriso e mi feci cadere, scivolando verso il nostro materasso.
C’è questo stanotte.

∞∞∞∞∞

Alba. Insieme di colori roteanti. Giostra di sapori esotici. Il mio tramonto, la nostra casa, questo rifugio. Quest’alba è il nostro tramonto.

I minuti che si susseguivano erano piccoli spilli nella nostra pelle, sui nostri corpi nudi e stanchi, ubriachi di sonno, esausti. Osservavamo l’arrivo della luce e, con essa, di un nuovo giorno che avrebbe segnato la tua partenza. Avvolte nelle coperte ruvide come carta vetrata eravamo simili a bozzoli di farfalle, pronte a spiccare il volo. I coni di luce che si facevano strada tra un palazzo e l’altro illuminavano a tratti i nostri visi che si guardavano, fissi, come a voler fermare quell’attimo, quei secondi di niente, che parevano davvero vuoti, come se non facessero parte del tempo. Potevamo fregarlo?
L’orologio sulla parete era avanti di 20 minuti ma Gerry ci aveva detto di non farci caso, che non era affidabile, perché a volte si fermava. Poteva essere il nostro complice. Fermati, lancetta, trai un sospiro per una volta e non camminare più! Dai vita a questo momento fuori dal tempo, rendi possibile un amore senza fretta, che non si ciba di minuti! Il nostro non è un amore avaro di tempo, ma che lo regala agli altri, a quelli che sono sempre in ritardo…Il tempo non fa per noi perché non ci ascolta e non è dalla nostra parte. Fermati, fermati!
Non pareva ascoltarmi: imperterrita, proseguiva per la sua strada.
Erano le 7, il campanile ce l’aveva ricordato.
La luce continuava a irrompere nella stanza. La stanza, in realtà una sala, era pregna dei nostri odori e la luce pareva amplificarli, unificando i miei e i tuoi, in armonia, come una sinfonia. Ti sei alzata e hai aperto la finestra, facendo entrare un’arietta piacevole tipicamente primaverile. Non faceva più freddo ormai, di notte, avremmo potuto al limite dormire all’aperto, magari in Città Alta…
Intanto nella stanza potevamo ammirare il tavolino su cui c’erano resti della serata: mozziconi spenti, tappi di bottiglia, bicchieri di plastica, plettri…nulla era nostro lì, ma cercavamo di fissare ogni piccolo particolare per poi renderlo privato e personale, affinché quella stanza fosse un pezzettino anche nostra. Ma più ci sforzavamo di conservare ricordi, più tu mi guardavi con occhi pieni di soddisfazione e di malinconia, di paura, forse, sì, di timorosa attesa.
Eravamo solo di passaggio lì. Ogni tentativo di impossessarci di qualcosa era inutile. Neanche tu eri mia, in fondo, anche se io desideravo essere tua. Dopo quella notte non avremmo potuto parlare come prima. Ora c’era un filo che mi collegava a te. Ma in quel momento, nude e apparentemente felici, ci siamo rese conto di stare nel mezzo di un posto che ci aveva accolto per caso. Noi, come superstiti, su un’isola deserta, e fuori, il nulla che, implacabile, ci attendeva, pronto a risucchiarci e dividerci. Perché senza di te mi sentivo già un vuoto dentro.
Ci siamo baciate, giurandoci di amarci, hai pianto, io avevo i brividi, allora ti ho stretta a me, ho baciato le tue lacrime, i tuoi occhi, il tuo viso, per calmarti, ma come facevo se anch’io mi sentivo grigia? E ti ho ascoltato mentre mi parlavi di te, così simile al mio passato, e io, allibita, non facevo che fissarti, attenta, senza parole. Volevo che tutto fosse molto più lento.

La polvere si depositava finemente sul pavimento mentre cercavamo i nostri vestiti.
Ce ne siamo andate senza far rumore. Ci siamo immerse nel rumore di una mattina di fine marzo, nel rumore del tuo treno che mi strappava da te. Non riuscivo a scorgere i rumori fatti da noi.
Era come un film muto. Le lacrime scivolavano dai nostri occhi senza emettere alcun suono.

1 commenti:

Unknown ha detto...

Questa è ufficialmente la cosa più bella che abbia mai letto.
Commovente, sublime, davvero emozionante.